La libertà chiama in gioco la nostra responsabilità, verso le altre persone.(L. Ciotti)

sabato 24 ottobre 2020

XXX domenica del tempo ordinario. Riflessione di don Pietro

1. Amare Dio e amare l'uomo

L'orizzonte imprescindibile per capire e cogliere il  senso di quest'unico comandamento con due versanti è l'amore di Dio per l'uomo.

Tutte le tappe della storia di Israele e tutte le strutture della creazione sono, nella Bibbia, sotto il segno dell'amore di Dio.

Creazione e storia e il loro confluire nel pane quotidiano a tutti viventi (Salmo 136,25) sono gli ambiti su cui l'amore di Dio ha esercitato la sua efficacia e la sua sempre nuova fedeltà, dal primo giorno fino all'ultimo, il Sabato del Signore.

Dal racconto biblico  emergono gli attributi dell’amore di Dio. Innanzitutto l'amore di Dio è gratuito nel suo sorgere e nell’ agire. È pura libertà di voler donare, senz'altra ragione che quella intrinseca al dono stesso. C'è poi la fedeltà ll giuramento: l'amore che Dio dà all'inizio vale per sempre. L'amore cioè, vincola se stesso con una forza che vince il logoramento del tempo. La tenerezza è l'altra caratteristica dell’amore di Dio. Dio si lascia prendere le sue viscere, cioè si coinvolge profondamente e partecipa a quanto accade alla persona amata. Se questa sbaglia può contare su un amore misericordioso e perdonante di Dio. Certamente l'amore di Dio si aspetta una risposta totale, piena, e incondizionata: amarlo cioè con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze. L'amore di Dio non è solo  sentimento. È efficace e concreto: ci dona i beni di cui abbiamo bisogno per vivere.

Il Nuovo Testamento accentua e svela l'amore  irrevocabile di Dio che è dietro i doni che gli fa all'uomo, il pane, la salute, la pace, attraverso la vita, la morte e la risurrezione di Gesù.


2. L'amore dell'uomo per Dio: la fede

A queste iniziative incredibili di Dio l'uomo può corrispondere solo amando a sua volta il suo Signore con tutto se stesso.

Il primo segno che questa corrispondenza d'amore è in corso è la fede.

Fede appunto come risposta all'amore di Dio. Fede come prova e manifestazione di amore per Dio. Credere, infatti, non è innanzitutto operazione intellettuale, ma coinvolgimento di tutto l'essere e l’agire dell'uomo, come realtà fondate e rifondate continuamente dall'amore di Dio.

Dio mi dà vita in Gesù: ecco il primato dell’amore di Dio. Io accolgo questo dono di vita: ecco la fede-risposta dell'uomo.

A questo affidamento totale di sé all'amore di Dio l'uomo fa seguire la sua volontà di mettersi a disposizione di Dio, di amarlo con tutto il cuore, di obbedire incondizionatamente al suo amore.


3. L'amore del prossimo


E la risposta dell'uomo all'amore di Dio.

L'amore per il prossimo non è espressione della spontaneità umana, ma esso viene comandato da Dio.

Nell'Antica Alleanza questo amore assume il volto esigente della giustizia. Nella Nuova Alleanza è formulato all'imperativo e, in Giovanni, è chiamato comandamento nuovo.

L'uomo accoglie nella fede con la fede l'amore di Dio e vi reagisce amando il prossimo.

L'amore per il prossimo è lo stesso amore che l'uomo riceve da Dio ed è generato da Dio stesso nel cuore del credente.


"Amatevi come e perché io vi ho amati"


E’ comandato perché non corrisponde a ciò che l'uomo ha in sé e può da sé.

È nuovo perché dono divino.

È libero perché posso non corrispondervi.

L'uomo non è capace di amore perché è dominato dalla ricerca e realizzazione di sé, sia nei rapporti strumentali che in quelli affettivi. Ora l'amore dice  un'uscita da sé che cerchi l'altro in ragione di lui stesso. Amare è rispondere a quello che l'altro è: una povertà che chiede di colmarsi.

L’ amore di sé degenera in egoismo nella forma della competizione violenta o della inimicizia verso l'altro.

L'amore divino quando lo accogliamo fa di noi  delle creature nuove liberandoci dall'impotenza di amare. Ci libera dalla necessità di competere e ci libera dalla legittimazione della inimicizia.

Senza questo amore del prossimo, l'uomo è nulla sul piano del senso profondo della sua esistenza.

L’agape fa diventare l'uomo quello che è: essere per gli altri e non essere per sé.

Perdendomi nell'altro io mi ritrovo.

Per questo amore l'uomo diventa come Dio: essere che si dona.

L’agape-amore verso l'altro assume la forma della giustizia.

In Dio come fedeltà alle promesse. Nell'uomo come risposta al bisogno dell'altro.

Il prossimo è il luogo della signoria di Dio. Il suo diritto diventa per me un dovere.

Gesù è principio e termine dell'amore cristiano. Principio: egli dice amatevi come io vi ho amati. Termine: "qualunque cosa avete fatto... l'avete fatta a meno".


domenica 18 ottobre 2020

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di Don Pietro

I nemici di Gesù non desistono. Anzi, l'autorevolezza con cui egli ha tenuto testa, svergognandoli dinanzi alla gente, li ha irritati ancor più. Dopo frenetiche consultazioni decidono di accantonare per il momento le loro discordie interne e di far fronte comune contro di lui e così, in combutta,  emissari dei farisei e degli erodiani partono al contrattacco, decisi più che mai a coglierlo in fallo per poterlo incastrare e, in qualche modo, farlo fuori.

La trappola che gli tendono è davvero insidiosa. Soltanto una perfidia diabolica poteva escogitarla. Maestri di menzogna e navigati nell'arte di fingere, si avvicinano a Gesù simulando apprezzamento per il suo insegnamento "secondo verità", deferenza per il suo coraggio e considerazione per la sua libertà verso tutti.

Illudendosi di averne captato la benevolenza atteggiandosi a discepoli desiderosi unicamente di apprendere, lanciano il loro laccio infido: gli chiedono di pronunciarsi con chiarezza, con un sì o con un no, su un dibattito in corso, una questione pratica ma con risvolti religiosi che accendeva e divideva gli animi: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?".

Fra le tante vessazioni con cui gli occupanti romani angariavano il popolo, c'era una tassa personale, imposta a tutti, anche agli schiavi oltre che alle donne e agli uomini, dai 14 ai 65 anni. Un balzello abbastanza il esoso da corrispondere attraverso una moneta appositamente coniata, un denaro d'argento,  equivalente al salario di una giornata lavorativa.

L'indignazione popolare, di cui il movimento rivoluzionario degli zeloti si faceva vivace interprete, nasceva dal conio, su dritto della moneta, della testa dell'imperatore Tiberio, oltre che dall'universale comprensibile scarso amore per ogni inasprimento fiscale.

Il piano escogitato dai nemici di Gesù è perfido, ma ben congegnato: un vero trabocchetto. Si avesse risposto che era lecito pagare quella tassa all'imperatore, si sarebbe alienato gran parte della simpatia popolare e lo si poteva incriminare di attentato a quell'unica signoria di Dio di cui il popolo era fieramente geloso: due risultati niente male per discreditare Gesù e avviare la sua eliminazione.

Se, invece, avesse risposto che non era lecito pagare quel tributo, allora si sarebbe pubblicamente schierato contro i romani e, una volta deferito alle autorità, avrebbero provveduto queste ultime a farlo fuori come eversore e sobillatore del popolo, con sistemi sbrigativi, a onta delle garanzie pur previste dalla loro decantata civiltà giuridica.

La posta in gioco per Gesù era molto alta e l'alternativa senza via di uscita, così almeno credevano i suoi interlocutori e avversari. Per Gesù si trattava, cioè, di scegliere tra fedeltà al popolo è lealtà al potere occupante; tra l'unica, indiscutibile signoria di Dio e il rispetto dovuto ad una legge odiosa quanto si vuole ma vigente; tra doveri religiosi e obblighi civili; tra l'appartenenza alla città degli uomini, con le sue norme, e a quella di Dio, anch'essa con i suoi statuti.

Gesù non si scompone. Intanto rigetta l'alternativa-capestro con cui i suoi nemici vogliono farlo impiccare da solo. Come in altre controversie, egli non segue i suoi interlocutori sul terreno da loro scelto. Consapevole della complessità della questione, rifugge da ogni sua comoda e superficiale semplificazione spostandola a un livello di più alta problematicità e rinviando ai mittenti la ricerca di una sua possibile e onorevole soluzione.

"Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio": in queste parole di Gesù è possibile cogliere un concentrato densissimo di sapienza nuova e profonda, pur nella loro stringatezza e apparente semplicità.

"Rendete a Cesare": dunque chi legittimamente detiene il potere può legittimamente richiedere prestazioni e i sottoposti, credenti o no, hanno il dovere di soddisfarle. Per Gesù non c'è spazio per l'anarchia e per rifiuti pregiudiziali dell'ordine su cui una convivenza civile si regge.

"... quello che è di Cesare", precisa Gesù, delimitando i confini del potere di quanti sono investiti della responsabilità di legiferare e governare.

Questi, vuol dirci Gesù, hanno aree proprie di competenza, e lì sono sovrani. Se, però, travalicano i loro confini, se peccano, cioè, di eccesso di potere, allora la lealtà e l'obbedienza non obbligano per in coscienza e l'obiezione e la trasgressione diventano non soltanto lecite ma doverose, costi quel che costi.

Gesù non indica i casi possibili di prevaricazione  dai propri limiti da parte dei detentori delle varie forme di potere. Il giudizio dipende dalle situazioni storiche ed è demandato al discernimento dei singoli, della comunità, con l'aiuto dello Spirito e la guida della parola. Se Cesare volesse legiferare su Dio, sulla sacralità e inviolabilità della vita, se volesse disporre dell'uomo da padrone assoluto -i casi ipotizzabili sono infiniti-, l'obbedienza a lui non sarebbe più virtù ma peccato, e anche non lieve, contro Dio e la sua unica signoria sull'uomo e sul mondo. Lealtà sì, ma condizionata, con riserva. Anzi, è dovere del discepolo esercitarsi in permanenza nella critica ad ogni potere che avanzasse pretese lesive di quella sovranità assoluta che compete soltanto a Dio. Il potere, in tal senso, non è divino, ma umano. Non va demonizzato ma neppure sacralizzato. Nei suoi confronti il credente deve far valere le riserve che la sua appartenenza ad un'altra città, quella di Dio con patria nei cieli, gli impone tassativamente. Nessuna teocrazia dunque, con i credenti convinti che dalla fede discenda un unico modello di società da imporre a tutti, magari con la forza. Ma, anche, nessun laicismo, con lo Stato che pretenda di entrare dovunque, anche in ambiti a lui preclusi.

 I modelli, poi, del rapporto con Cesare possono configurarsi in svariati modi. A volte il credente si vede costretto a scegliere tra Cesare e Dio, dando soltanto a quest'ultimo piena obbedienza. Altre volte tra Cesare e Dio può instaurararsi un regime di rispettosa reciproca collaborazione, purché senza confusione, ambigui consociativismi  e compromessi. Può anche accadere che si debba prescindere da Cesare riferendosi soltanto a Dio, com'è accaduto a Gesù e, tante volte nei secoli, alla comunità dei suoi discepoli. Questi, comunque, non farebbero male a ricordarsi sempre che Gesù è stato perseguitato, processato, condannato e ucciso proprio dal potere. "Tra Dio e Cesare non c'è una stretta di mano, un patto... ma una croce. I Gesù patì sotto Ponzio Pilato perché fu davanti a lui testimone, come dice il Vangelo di Giovanni, della libertà dell'uomo e testimone della verità di Dio..., le due cose che il potere teme di più d'ogni altra. Ma sono anche queste le cose che Dio ama  più di ogni altra" (Paolo Ricca, Alle radici della fede, Claudiana, Torino 1987, p. 58).

 " A Dio quello che è di Dio": conclude così Gesù la sua replica ai farisei e agli erodiani. Siccome tutto è di Dio ne segue che anche l'ottemperanza alle giuste leggi dello Stato, il cristiano deve viverla come servizio alla causa di Dio, con spirito religioso come un aspetto indiretto della sua volontà.

Niente e nessuno infatti, all'infuori di Dio, possono essere ragione sufficiente perché un credente si giochi vita. Questo primato di Dio, e di nient'altro che sia meno di Dio, il credente sa che puoi riconoscerlo e viverlo sotto qualsiasi regime politico. Storicamente non si sa bene se, ai fini della purezza e diffusione della fede, sia da auspicarne uno tollerante o uno biecamente persecutorio e stupidamente repressivo. 

venerdì 9 ottobre 2020

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di don Pietro

1. "Il regno dei cieli è simile ad un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" (Matteo 22,1-14)

il regno dei cieli significa qui il regno di Dio e cioè la famiglia dei figli di Dio.

Il regno di Dio è simile ad un banchetto di nozze, non ad una caserma, ad un'azienda, ad un'agenzia di servizi, neppure a un convento o a un monastero severo, tantomeno a un tribunale.

La festa che accompagna il banchetto prevede una grande abbondanza di vivande. Nella simbologia biblica l'abbondanza di cibo significa l'abbondanza della conoscenza e cioè della sapienza e della vita. C'è anche la gioia a rallegrare il cuore degli invitati al banchetto. Essere invitati personalmente dal re è un grande onore ed è altro segno della bellezza della festa. 


2. Il motivo profondo del rifiuto

Il re invita al suo pranzo, invita a gustare le sue vivande prelibate, invita alle nozze del suo proprio figlio.

Ma gli invitati pensano al proprio campo da curare, ai propri affari.

Ecco: gli invitati non sono disponibili a mettere da parte le loro faccende, i loro interessi.

Sono prigionieri di loro stessi, perciò respingono ciò che li obbligherebbe a badare a qualcosa d'altro.

Non sanno gioire della gioia di un altro. Non sanno riconoscere il primato di un altro.

Insomma: è l'eterna tentazione dell'uomo di conquistare una falsa autonomia da Dio, ignorandolo e difendendosi. E, forse, l’uomo non ha torto:  Dio infatti è molto esigente: dà tutto ma vuole anche tutto.

Farsi amare da Dio è molto difficile.

L'uomo è sempre un bambino che vuole prescindere dai genitori cui si ribella.


3.  La punizione per il rifiuto

I servi sono i Profeti uccisi.

Il Figlio è Gesù Cristo.

Il brano di Matteo allude alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.

Il male, vuol dirci l’ evangelista, è un boomerang: ed è questa  la punizione.


4. L'invitato senza la veste  

Ecco il senso: non basta avere accettato l'invito. Bisogna anche cambiare la propria esistenza in ragione dell'invito.

L'abito nuziale da indossare nel banchetto di Dio è la carità insieme alla  conversione.

Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti: questi sono coloro che dimostrano di avere carità e di sapersi ogni giorno convertire.


sabato 3 ottobre 2020

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. Riflessione di don Pietro

1. Sia il brano di Isaia che quello di Matteo narrano la storia tragica di un rapporto, quello tra Dio e l'uomo, attraverso la metafora della vigna.

Protagonisti della vicenda sono il padrone della vigna, la vigna stessa e i vignaioli.

Per Isaia il rapporto è di appartenenza totale, di amore generoso e la vigna è come una persona amata intensamente. "Canterò per il mio diletto un cantico d'amore per la sua vigna" (Is, 5).

Purtroppo l'esito del rapporto è deludente: anziché grappoli dorati la vigna ha prodotto solo uva selvatica. Perciò dal cuore del profeta scaturisce il canto dell'amore tradito, della giustizia disattesa, della fedeltà infranta.

2. La parabola evangelica

Quì la vigna non è avara di frutti. Sono i vignaioli che vogliono accaparrarsi del raccolto.

Il senso nascosto nella parabola è che la vita, dono di Dio, deve essere offerta a Dio. L'uomo non può rivendicare una autonomia totale da Dio. Dio invia agli uomini i suoi servi e alla fine il suo proprio Figlio: ma i vignaioli li uccidono tutti. Il male commesso dagli uomini alla fine, però, si ritorce contro gli uomini stessi.

3. Le due tentazioni della parabola

La prima tentazione consiste nel voler disporre della propria esistenza e del mondo in autonomia totale da Dio. Significa cioè volersi fare  Dio, decidere da soli il bene e il male. Accade quando l'uomo col suo comportamento violento nei confronti della terra finisce per distorcere l'ordine che Dio vi ha inscritto. Un altro esempio è quando l'uomo indebitamente si appropria di tutti i beni della terra  escludendo gli altri dalla loro fruizione.

La seconda tentazione consiste nel misconoscimento e nel rifiuto violento dei profeti e del Figlio stesso di Dio. Non solo gli ebrei hanno eliminato i profeti ma anche i cristiani continuano a farlo nei secoli.

4. Conseguenze

Verrà  il giorno in cui Dio ci chiederà conto della sua vigna. C'è il rischio che Dio ci tolga la vigna per darla ad altri vignaioli più fedeli.

Nel campo di Dio non esistono primogeniture né possessi definitivi.

Per fortuna e grazie a Dio ci sono anche vignaioli fedeli. Sono quelli che migliorano la vigna per offrirla a suo tempo al legittimo proprietario.

Noi ora siamo nel tempo dell'assenza del padrone della vigna.

Però dobbiamo ricordarci sempre che Dio ritornerà e fin a quando non viene avrà pazienza con tutti noi.

Se noi però perseveriamo nel rifiuto, allora incombe su di noi  un giudizio severo: una sentenza di morte!

Gesù, il Messia, non mette fine alle contraddizioni della storia, come tutti spereremmo, ma si pone al centro della contraddizione e da qui la scioglie.